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La Piel que Habito



Pedro Almodóvar, con La Piel que Habito" ci regala una delle sue opere più cupe e perturbanti del suo catalogo cinematografico, tratto dal romanzo Tarantola di Thierry Jonquet.


Questo film si distacca dal classico melodramma colorato e passionale a cui Almodóvar ci ha sempre abituato, per immergersi in un thriller psicologico carico di tensione, ossessioni e identità distorte.



La storia si snoda attorno al chirurgo plastico Robert Ledgard (interpretato da Antonio Banderas, nella sua interpretazione più buia e sinistra), ossessionato dal suo progetto di vendetta verso la misteriosa figura e "cavia umana" di Vera (Elena Anaya) che diventa la chiave di una trama intricata che si dipana lentamente, rivelando segreti sconcertanti e traumi irrisolti.


Anche se il film, nel momento della sua massima verità, guida lo spettatore verso una maggiore comprensione di ciò che sta osservando, offre una prospettiva decisamente insolita, lasciando ampio spazio alla nostra personale (in)capacità di analisi e interpretazione di un Rape & Revenge fuori dagli schemi tradizionali.



Qui, Almodóvar va oltre e rivolge il suo focus al tropo del genere-mostro, giocando con temi, quali: l'identità, la trasformazione fisica e psicologica. Ma anche tematiche come il controllo e la reclusione forzata, esplorando territori morali complessi, spingendo lo spettatore ad interrogarsi sulla giustizia, sulla vendetta e sul sottile confine tra vittima e carnefice.


Il corpo diventa così uno strumento di manipolazione, potere e controllo come un'ogetto di proprietà che diventa una gabbia; quasi a riflettere la società contemporanea, dove l'ossessione della perfezione che passa sotto le luci accecanti della chirurgia estetica e delle tecnologie bio-mediche, in una rappresentazione metaforica ed inquietante, come a voler lanciare un messaggio di come un'ideale fisico venga imposto nelle nostri menti togliendo e distorcendo il limite tra il miglioramento del corpo e l’oppressione della volontà, sfidando così l’idea dell'essere una "proprietà individuale" mettendolo alle mercè della gogna mediatica.



Un'altro aspetto molto interessante che viene esplorato, è il forte legame tra il trauma e il desiderio inconscio ma vivido nella mente della vittima di quel desiderio di vendetta, come risoluzione, o meglio come un tentativo di trovare giustizia per il dolore subito attraverso un'atto di violenza che perpetua un ciclo distruttivo.


Bisogna saper accettare e comprendere, come Il trauma non è un malessere unicamente individuale, ma anche collettivo, in quanto coinvolge la famiglia e tutte le relazioni sociali attorno a noi. La violenza può generare solo altra violenza, creando un'effetto a catena che stravolge tutto, trascinando con sé una spirale infinita di rabbia e odio.



In "La pelle che abito", il corpo diventa così una tela su cui sono scritte le dinamiche di soggezione isterica, dove il corpo trasformato di Vera/Vincent, diventa il simbolo di una comunità che tenta di ridefinire e manipolare le identità per adattarle a modelli prestabiliti. Almodóvar sembra volerci dire che, in una società ossessionata dall’apparenza, il corpo è al tempo stesso il luogo dell’emancipazione e della sua prigionia.


Le immagini sono curate nei minimi dettagli, i colori freddi e la fotografia nitida, creando un'atmosfera gelida che contrasta con la natura emotivamente devastante della storia, accompagnando lo spettatore in un viaggio disturbante, ipnotico e crudo, dove l'ossessione maniacale di Robert, rappresenta quell'ideale estetico irraggiungibile e la regolamentazione dell'identità con il suo processo di privazione forzata dell’individualità, diventando un'oggetto manipolato e all'apparenza perfetto, ma privato di qualsiasi volontà.



Almodóvar si allontana dalla sua consueta narrazione per esplorare l'orrore umano, proponendo una riflessione audace sulla natura di genere e la sua manipolazione che deriva dal controllo assoluto sull'altro.

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