The Substance
"The Substance" – già il titolo evoca un riferimento a qualcosa di essenzialmente divino, un principio immutabile, che si manifesta in un liquido dalle proprietà tanto miracolose quanto velenose, proprio come il suo colore verde radioattivo – è il secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat. Questo film, un body-psycho-horror, affronta con una forte critica sociale e psicologica il tema del corpo femminile e del controllo che la società esercita su di esso.
La storia si snoda attorno a Elisabeth Sparkle (Demi Moore), una star del fitness che si trova ormai troppo "datata" per portare avanti il suo programma di aerobica - ispirato ai video anni '80 di Jane Fonda e prima di una lunga serie di citazioni che inzuppano il film, come fosse un tiramisù - Nonostante abbia guadagnato una stella sulla Walk of Fame di Hollywood, viene bruscamente invitata a farsi da parte per lasciare spazio a donne più giovani e desiderabili.
La svolta arriva quando Elisabeth entra in contatto con una misteriosa azienda che commercializza "La Sostanza", promettendo un ritorno alla giovinezza e come prevedibile, Elisabeth cede senza troppe esitazioni. Tuttavia, ciò che non viene detto è spesso foriero di disastri. Dopo aver assunto l'elisir miracoloso, il corpo di Elisabeth si trasforma, dando vita a Sue (Margaret Qualley), un'alter ego più giovane di se stessa.
Le due donne devono però rispettare una rigida regola: mantenere una distanza vitale di sette giorni, altrimenti la convivenza si rivelerà disastrosa. Ma l'egoismo e l'ambizione dell'una e dell'altra prenderanno il sopravvento, scatenando un'opera allegorica nerissima, grottesca e amara.
Il film non si presenta né come un'inno femminista né come un'esaltazione del maschilismo, bensì come una rappresentazione cruda e assurda della realtà.
Fargeat esplora con onesta brutalità quei piccoli gesti di autolesionismo che ogni donna compie quotidianamente, nel ritratto più autentico dell'odio verso sé stesse. Una società maschile, certo, ma anche profondamente femminile – perché sì, è ora di smetterla con le favole! Noi donne siamo spesso le nostre nemiche numero uno!!! - che distrugge l'autostima, spingendoci a cercare una dipendenza che si radica nella nostra mente fino a corroderci, trasformandoci nel nostro peggior incubo e conducendoci inevitabilmente verso l'autodistruzione.
Elisabeth e Sue, pur essendo la stessa persona, si trovano in una competizione senza via di ritorno, dove una tenta costantemente di prevalere sull'altra, in una lotta per il possesso del corpo "in prestito".
Il film affronta temi come il controllo e l'oggettificazione del corpo, proponendo una riflessione sul concetto di trasformazione, simbolo sia del potere femminile che della pressione sociale che impone alle donne standard di bellezza sempre più irraggiungibili. La metamorfosi, che all’inizio sembra una promessa di liberazione, si rivela presto un’arma a doppio taglio, portando le protagoniste a confrontarsi con dilemmi morali e psicologici.
Se da un lato creme, trattamenti estetici e chirurgia sembrano offrire la possibilità di recuperare la giovinezza o migliorare il proprio aspetto, ci rendiamo presto consapevoli che il desiderio di apparire "perfette" è in realtà imposto da una società che non accetta difetti, definendo ciò che è accettabile e bello. Questo non riguarda solo il desiderio maschile, ma soprattutto noi e ciò che vediamo riflesso nello specchio, dove proiettiamo difetti inesistenti, alimentati da quella voce interiore che ci rende spesso la nostra nemesis.
"The Substance" non si limita a rappresentare l'ossessione per "la succosità della freschezza", particolarmente diffusa nell'industria dell'intrattenimento, ma amplifica il tema della mostruosità della trasformazione corporea, riportandoci ad un body-horror che richiama i classici degli anni '80.
Visivamente, il film è un’esplosione di colori vivaci, soprattutto nelle scene dominate dalla magnetica presenza di Sue, vestita in abiti succinti e sbrilluccicosi mentre si scatena davanti alle telecamere con movimenti esasperanti e sensuali che ricordano il video "Call on Me" di Eric Prydz (2004) – un nostalgico richiamo agli eccessi degli anni '80, contrapposta al presente, dove quel mondo sfavillante viene demolito pezzo per pezzo.
La regia dinamica e una fotografia che esalta il corpo femminile in modo inquietante, piuttosto che sessualizzante, contribuiscono a creare un’atmosfera di tensione costante, alternando momenti di calma apparente, quasi clinica, a improvvise esplosioni di violenza e orrore.
Ma dove sta il problema? Il film funziona perché non giudica, ma ci offre uno degli stereotipi più antichi: "l'uomo come vede la donna – la donna come vede se stessa", in un mondo che obbliga la donna, raggiunta una certa età, a confrontarsi con una decadenza psico-fisica imposta da un sistema che ci spinge a riflettere su temi attuali come la dismorfofobia e la pressione sociale, in un viaggio oscuro nella psiche e nel corpo umano.
Nonostante la sua potenza visiva e narrativa, il film soffre di una durata eccessiva (140 minuti), che finisce per diluire l’intensità di alcune scene. Il film è un piccolo grande capolavoro, ma fatica a mantenere l'interesse costante nello spettatore, specialmente nel finale, che pur raggiungendo il suo culmine più viscerale e grottesco (meraviglioso tripudio di splatter-blood) , si protrae eccessivamente, finendo col sembrare qualcosa di diverso da quello che vorrebbe essere.
Ma non lasciatevi ingannare. Questo film è un'esperienza immersiva, in cui nulla è lasciato al caso, e ogni scena, parola, oggetto, colore o reazione è scritta con intelligenza e profonda conoscenza del gioco, lasciando il pubblico esterrefatto dalla sua magnificenza.
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